1 – RIFLESSIONI SUL TRAUMA NELLA TEORIA PSICOANALITICA
“Se il trauma colpisce un’anima e un corpo impreparati, vale a dire senza che sia presente un controinvestimento, allora esso agisce sul corpo e sullo spirito in modo distruttivo, cioè frammentandoli” (Ferenczi, 1932)
Per evento traumatico si intende un evento stressante, dal quale non ci si può sottrarre, che sovrasta la capacità di resistenza dell’individuo.
Levenson sostiene che il trauma psicologico è visto non più come riflesso di un mero avvenimento, ma come una omissione: consiste non in ciò che è successo, ma in quello che non è mai stato detto di ciò che è successo. È questo che porta alla “distorsione nevrotica” (Levenson, 1983). È chiaro, dunque, che da questo punto di vista per diventare consapevole una persona deve rompere l’identificazione con qualsiasi singolo aspetto di sé e impegnarsi nel dialogo interiore delle voci multiple della soggettività. L’autoriflessione, da questo punto di vista, si basa su: la capacità di divisione interna, una dissociazione salutare, lo “stare negli spazi” fra le realtà. È in questo modo che Bromberg (2011) propone la sua idea di un trauma che caratterizza varie patologie, quando sostiene che alla base di ogni quadro psicopatologico esista una “dimensione traumatica che, attraverso la dissociazione limita la vita mentale nella capacità di riflettere, creando condizioni di incapacità di relazionarsi pienamente con gli altri. Le vicende traumatiche, vengono a costituirsi all’interno della psiche come “isole dissociate” in quanto non possono essere formulate e restano disarticolate dalla trama delle esperienze consapevoli individuali. L’individuo struttura il proprio sé attorno ai buchi nell’esperienza, attorno alle “isole dissociate”. Per Bromberg, comunque, la dissociazione non è patologica in sé. Rispetto alla sua visione della psiche come costituita da molteplici e discontinue configurazioni di stati del Sé, essa risulta essere il meccanismo primario utilizzato dall’individuo per mantenere un senso di sé coerente e integrato: risulta essere indispensabile contro la frammentazione, e consente all’individuo di conservare le esperienze traumatiche, non formulate, come contenuti mentali discontinui, senza nessi con le altre esperienze. “In tal modo essa paradossalmente, dà alla persona la possibilità di mantenere il sentimento di coerenza, integrità del proprio senso del Sé e della propria continuità personale”
Kohut acutamente sottolineava che “Il vero trauma è la mancanza di risposte empatiche dei genitori” (Kohut, 1989, p.304). Il fondamento della fiducia in sé e della sicurezza interiore dipendono dalle risposte dei genitori alle richieste del bambino: la costituzione del «Sé coesivo» dipende dalla qualità delle relazioni genitoriali (rispecchianti, ideali, gemellari) con il figlio.[…] Se un individuo è stato deluso traumaticamente in certi periodi della sua vita – quando la sua grandiosità non trovava eco – ogni tipo di interferenza con lo stato di benessere è sentita come un colpo all’autostima, un attacco (Kohut, 1984).
Lichtenberg (Lichtenberg, Lachman, Fosshage, 1996) descrive le esperienze traumatiche, in termini di “scene modello” nelle quali è palese tale meccanismo omissivo/deformante. Riporta il caso di una paziente, Nancy, che rievoca in analisi una di queste particolari scene: si ribella al fratello sadico (che, come spesso accadeva, la stava strangolando) e viene ripresa dalla madre per non aver capito che si trattava di un gioco, per essere senza affetto. E’ lei, Nancy, la bambina malvagia e istigatrice!
Un bambino è per certi versi intransigente, ha i suoi bisogni e si attende che vengano accolti, anche se smette di chiedere non smette di desiderarle. I bisogni di un bambino vanno oltre il cibo, o le cure quando sta male. Se i bisogni emotivi non sono accolti il bambino è portato a condurre a sé i motivi delle mancate cure. L’immagine di sé che si costruisce genera in certi casi un complesso di colpa traumatico. Quando si cresce matura un senso di sé stabile, si sviluppa il ragionamento, ma i traumi relazionali (o microtraumi) interiorizzati possono rimanere attivi. La psicoanalisi dà un senso alla sofferenza, dare un senso rende sopportabili gli eventi. L’analisi aiuta a chiudere un pensiero che era rimasto aperto e continuava a ripetersi. E’ ciò che Correale in un convegno a ha definito il “restare al chiodo”, “una tendenza mortifera a ripetere le stesse modalità”. Se non si riesce a chiudere le esperienze perché si tenta continuamente di risolverle nella ripetizione può aprirsi un varco la psicosi. Un altro fattore importante nella genesi di un trauma psicologico è la casualità. La vita è di per sé imprevedibile e incontrollabile. Quando un evento dotato di potere traumatico sferra un attacco alla nostra identità e non possiamo evitare che l’evento si compia allora sentiamo di non poter fronteggiare il dispiacere, di non avere il controllo su quanto subiamo. La vita nel suo essere imprevedibile può portare sofferenza, non riusciamo a risolvere l’esposizione a questo rischio e siamo portati a ripetere patologicamente quella trama emozionale originariamente impressa. Si potrebbe rinvenire una tendenza mortifera nel ripetere le stesse modalità interpersonali, mentre il “nuovo” introdotto dal rapporto con l’altro da sé può portare il cambiamento. Dare un senso ad un evento traumatico del passato permette di chiudere quello stato di sé che si colpevolizza e superare la paura della mancanza di controllo sulle altrui risposte emotive.
VERSO IL SUPERAMENTO DEL TRAUMA PSICOLOGICO
L’obiettivo è di interrompere quella sorta di ruota karmica in cui i microtraumi, come i macrotraumi, producono reazioni difensive che spesso attutiscono o distorcono aspetti dell’espressione di sé, intaccano la coesione del sé e sgocciolano nei rapporti esistenti man mano che si sviluppano nel futuro, condizionandoli.
Bateson in un passo di “Verso un Ecologia della Mente” afferma che la funzione della mente è la codificazione, ossia la traduzione delle informazioni provenienti dall’esterno. Quindi se non si riesce a giustificare un determinato comportamento restrittivo (o qualsiasi risposta emotiva distonica) – come per esempio la rabbia del padre che non vuole che le figlie escano a giocare – in un ottica di framing (Bateson, Goffman) la codificazione della risposta del genitore getta l’individuo in un paradosso che non permette via di uscita (mi controlli perché sono un bambino ma il tuo controllo mi spaventa, mi fai del male facendo il mio bene). La cornice sociale (mio padre non vuole) e lo schema mentale (io però voglio e rischio le botte) si fondono in un frame (non posso avere ciò che voglio senza soffrire). La ricodifica di uno schema relazionale, l’analisi dell’evento al fine di risignificarlo, consente di chiudere le conseguenze ancora aperte del trauma psicologico e acquisire la capacità di uscire dalla coazione a ripetere. Si rompe un frame all’interno del quale le cose erano destinate a ripetersi. Tutto questo sembra molto simile a quanto affermano i teorici della mentalizzazione in tempi più recenti. Fonagy e colleghi si richiamano a Vygotskij, secondo cui la mente si sviluppa dall’esterno all’interno. “Un processo interpersonale si trasforma in uno intrapersonale. Ogni funzione dello sviluppo culturale del bambino appare due volte: in primo luogo, sul piano sociale e, successivamente, a livello individuale; prima tra le persone e poi all’interno del bambino”. Mentalizzare aiuta a raggiungere chiarezza circa l’esperienza emotiva. Similmente Edelman definisce «presente ricordato» la capacità di collegare il proprio stato di coscienza vigile a esperienze passate che vengono rielaborate e riutilizzate per nuove interazioni dinamiche che sfruttano il meccanismo neuronali di rientro che sostengono i concetti di passato e di futuro atti ad includere se stesso, come soggetto, nel tempo.
Dal punto di vista degli studi sull’attaccamento tante esperienze diventano la tendenza a vedere le cose in un determinato modo. Si legge il presente sulla base dei modelli operativi interni. Le esperienze infantili hanno una valenza epigenetica. In una visione sistemica Wynne fa riferimento al copione di attaccamento nella famiglia di Byng-Hall e ai MOI di Bowlby come modelli dell’attaccamento con cui i componenti della famiglia arrivano a sviluppare una consapevolezza interazionale che faccia riconoscere il momento in cui è necessario apportare dei cambiamenti agli abituali modelli di regolazione delle relazioni (mutualità). A questo punto si può raggiungere un livello ottimale di intimità intesa come condivisione affettiva e sintonizzazione derivata dalla conoscenza e dal riconoscimento recirpoco. Si riconosce una relazione come intima quando si sperimenta la fiducia di potersi aprire all’altro con l’aspettativa che si verificherà una risposta empatica (Mazzoni, 2016).